Se Martina Attili, cantante di X Factor, ha reso famosa la paura della felicità (la Cherofobia), da tempo ormai la nostra società non di rado ci impone il dovere della felicità.
Ma perché, anche quando non ci va, dovremmo sentirci in dovere di essere felici?
Vi è mai capitato di sentire di non poter essere tristi, pensierosi, di malumore? “Dai non fare così: siamo tutti insieme!”; “Però che noia che sei!”; “Ma che motivo hai di esser triste?”; “Goditi la vita!”; e così via.
“Perché non posso dirti di non essere felice? Non sono meno vivo, non sono meno vivo”, cantava Manuel Agnelli, il frontman degli Afterhours.
Perché la tristezza, la rabbia, la malinconia dovrebbero non avere lo stesso diritto di espressione della felicità? Perché dovremmo avere paura di esprimere il nostro malessere e ricevere conforto, comprensione e aiuto?
Senz'altro vorremmo tutti essere sempre felici, ma è normale che le difficoltà che inevitabilmente la vita ci pone possano farci sentire giù di morale.
E perché, in questi casi, dovremmo sentirci in colpa a non essere felici? Perché dovremmo essere sempre felici?
Vediamo alcuni situazioni in cui questo può capitare:
- Se mi sento, consciamente o meno, responsabile del benessere o del malessere delle persone a cui voglio bene, posso credere di dover essere sempre forte e felice per potermi occupare degli altri nel modo migliore possibile (tra parentesi, questa tendenza è in realtà di ostacolo quando ci vogliamo occupare delle persone a cui vogliamo bene in maniera sensibile).
- Se sono cresciuto in una famiglia che si è sempre preoccupata di mantenere una facciata di serenità e felicità, ignorando problemi e sofferenze anche gravi che comunque continuavano ad esistere, potrei sentirmi sleale con loro nel fare diversamente.
- Se le persone più importanti della mia infanzia e della mia adolescenza mi criticavano, mi trascuravano o si angosciavano quando ero giù di tono posso giungere a pensare che essere felice è l'unico modo per essere compreso, accettato e non pesare sugli altri.
- Infine, il desiderio di raggiungere quella felicità che familiari gravati da sofferenze e insoddisfazione non hanno mai provato, potrebbe portarci a credere che lasciarci andare, anche momentaneamente e comprensibilmente, alla tristezza ci renderebbe inesorabilmente come loro.
Se l'assenza di felicità provoca sofferenza, la tendenza a evitare di esprimere il proprio malessere può condurre a una sofferenza ancora più grande che, paradossalmente, ci allontana da una reale felicità, e può scatenare disturbi depressivi.
Come scriveva il poeta Evtusenko:
“No, non mi serve in niente la metà!
A me – sia tutto il cielo! La terra tutta esigo!
I mari e i fiumi, slavine di montagna
Son miei – e non accetto spartizioni!
No, vita, non mi addolcirai a spicchi.
Tu tutta intera! posso sostenerti!
Non voglio né metà della fortuna,
né voglio una mezza sofferenza!
Voglio solo metà di quel cuscino,
dove, premendo cauto sulla guancia,
indifesa stella, stella cadente,
l’anello ti scintilla sulla mano”.
Dott.ssa Giorgia Abate