Ricordo molto bene quando una mia paziente, spinta dall'idea di trovare spiegazioni soddisfacenti e adeguate soluzioni a dolori gastrointestinali che la facevano soffrire da circa un anno, si sottopose a una gastroscopia dolorosissima che non rilevò alcun indizio di ‘danno fisico’. Le proposero comunque una terapia farmacologica per alleviare la fastidiosa sensazione di acidità gastrica. Rimasi quasi perplessa nel momento in cui A. mi disse che quei farmaci non li aveva acquistati e non aveva intenzione di farlo. Nel corso della terapia però cominciò a parlare della forte rabbia nei confronti del suo ragazzo, da cui non si sentiva ‘vista’ e accolta nei suoi bisogni. I sintomi che le procuravano così tanta sofferenza sembravano essere magicamente scomparsi proprio quando aveva deciso di tirare fuori la sua rabbia, emozione che fino a quel momento diceva di non aver mai provato.
Anche a voi è capitato di sentirvi sopraffatti da dolori fisici senza riuscire a comprenderne la causa? Parlo di fastidi addominali, acidità gastrica, tensioni muscolari, spossatezza, affaticamento, e così via.
Questi sintomi possono costituire dei modi con cui esprimiamo il nostro disagio emotivo o un conflitto interno che non siamo ancora riusciti a sciogliere. Ogni emozione che proviamo attiva in noi tutta una serie di cambiamenti corporei (come l’aumento del battito cardiaco nell'ansia e nella paura, o il nodo alla gola nella tristezza) e di vissuti soggettivi che danno forma alle emozioni che proviamo, al nostro umore e ai nostri sentimenti. Quando siamo furiosi, ad esempio, di norma sappiamo che la tensione muscolare che proviamo è una delle espressioni della nostra rabbia.
Quando le sensazioni corporee legate a un'emozione vengono lette come indipendenti dall'emozione stessa o, addirittura, non siamo consapevoli dell'emozione che proviamo, le “parole del corpo” possono erroneamente portarci a credere di avere un disturbo di natura organica, a chiedere un supporto medico e a farci sentire confusi e perplessi quando il dottore ci dice: “non ha nulla!” “Eppure, dottore, il cuore lo sento battere sempre troppo forte!”
Lo stress ambientale viene fronteggiato dal nostro corpo mediante cambiamenti fisiologici momentanei che hanno il duplice fine di modificare la nostra relazione con l'ambiente esterno e ripristinare un equilibrio interno. Tale processo comporta un “carico allostatico” per il nostro organismo. Un inadeguato o assente recupero della condizione di equilibrio può comportare carichi allostatici eccessivi o protratti, che alla lunga si rivelano dannosi a livello fisico ed emotivo. In diversi casi, la mancanza di un ottimale recupero può derivare principalmente dall'interpretazione che diamo agli eventi stressanti.
Qualche esempio.
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Se considero me stessa una persona inadeguata e destinata alla critica, vivrò l'esprimermi in pubblico come una situazione fortemente minacciosa e di conseguenza sarò più incline a sentire come stressanti gran parte delle mie esperienze di vita ‘sociale’.
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Se non riesco ad affrancarmi da una relazione insoddisfacente o da un ambiente lavorativo frustrante o non appagante, il malessere che continuerò a provare mi indurrà uno stato di stress privo della necessaria possibilità di “recupero”.
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Accadrà lo stesso nella misura in cui ansie, tristezze, preoccupazioni, insoddisfazione continuano a caratterizzare la mia quotidianità.
Uno stress protratto può comportare seri danni per la nostra salute, dando luogo a processi infiammatori che se da una parte richiedono l'ausilio di cure mediche per poter essere fronteggiati, dall'altra necessitano di un intervento psicologico che possa aiutare la persona a superare le cause.
Non sempre, tuttavia, problematiche fisiche senza spiegazione medica costituiscono un'espressione diretta dello stress. Alcuni meccanismi possono contribuire ad alimentare e a mantenere “rumori del corpo” altrimenti passeggeri e le preoccupazioni a essi legati. Ciò si verifica quando inconsciamente:
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focalizziamo la nostra attenzione sui “fastidi fisici”, cominciamo a preoccuparci e l'ansia che proviamo contribuisce ad amplificare la percezione del nostro dolore (amplificazione somatosensoriale);
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possiamo tendere ad attribuire i segnali che il corpo ci manda a una problematica organica, sottostimando il contributo di fattore emotivi o esterni (ad es. aver dormito poco, o aver mangiato molto) (stile attributivo di malattia);
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e finire così a rappresentarci una condizione di malattia rispetto alla quale, inconsapevolmente, esercitiamo più controllo di quanto non pensiamo.
A un livello più profondo, sono svariate le dinamiche che possono costituire la componente psicologica di sintomi fisici che non trovano una spiegazione medica:
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ad esempio, separarci da una persona cara che temiamo soffrirebbe molto la nostra lontananza, o di cui sentiamo di doverci occupare affinché il suo benessere venga mantenuto o il suo malessere lenito, può portarci a sviluppare un disturbo fisico che esprime il senso di colpa che, consciamente o meno, proviamo. In alcuni casi, questo malessere può costituire un'identificazione con la persona verso cui ci sentiamo in colpa e assumere caratteristiche simili, o che ci fanno pensare, a quelle del disturbo medico di cui questa persona soffre.
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In maniera analoga, preoccupazioni ipocondriache e/o malesseri fisici possono svilupparsi quando realizziamo o ci apprestiamo a realizzare i nostri desideri a fronte del timore, consapevole o meno, di umiliare, ferire o perdere una persona a cui teniamo se abbiamo più successo di lei.
A., la paziente dell’esempio sopra descritto, tendeva a reprimere la rabbia a causa della credenza patogena inconscia secondo cui manifestare le proprie emozioni all'interno di una relazione avrebbe appesantito l’altro fino a farlo allontanare. Questa credenza si era sviluppata durante l’infanzia come tentativo di adattarsi ad esperienze per lei molto dolorose. Il padre aveva abbandonato lei e la madre poco dopo la sua nascita, e lei non si era mai sentita vista e accolta dalla madre. A. aveva sviluppato l’idea che i suoi ‘capricci’ e i suoi bisogni avrebbero pesato troppo su una figura materna impulsiva e depressa, fragile e fin troppo appesantita dai tanti problemi di salute. Pertanto, A. non poteva nemmeno immaginare sé stessa come una donna arrabbiata, perché ciò avrebbe provocato in lei un forte senso di colpa legato all'idea di poter ferire le persone che amava. Così ogni volta che si arrabbiava non ne era consapevole: le sensazioni fisiche derivate da quello stato emotivo, pertanto, venivano da lei costantemente lette come un segno di malesseri fisici, forti mal di pancia che dovevano avere un qualche significato medico e che assolutamente non potevano essere ascrivibili al comportamento frustrante delle persone a cui era legata.
La sofferenza fisica può a volte essere espressione di emozioni o di sensi di colpa di cui non siamo consapevoli. In questi casi, rivolgersi a uno psicologo può aiutarci a comprendere quale “grido” il nostro corpo sta urlando e facilitarci nell'urlare quei bisogni, desideri ed emozioni che abbiamo troppo a lungo soffocato.
Dott.ssa Camilla Rugi